mercoledì 19 novembre 2014

Da umani a cannibali attraverso i film. Indagine sui significati di antropofagia e di "umanità" nelle società capitalistiche avanzate

“Affermiamo il nostro attaccamento alla specie come se fosse un dato di fatto, un presupposto. Fino al punto di costruire attorno all’umano la nozione fondamentale di diritto. Ma stanno davvero così le cose?” Rosi Braidotti (1)
Il cannibalismo è uno dei più grandi tabù della civiltà occidentale. Nell’immaginario collettivo è relegato all’interno di società isolate, impropriamente definite come “primitive” e “selvagge”, ma in realtà non è un fenomeno estraneo al mondo occidentale. Ci sono diversi episodi di antropofagia accertati durante momenti di disperato bisogno come in occasione di guerre e carestie.

Un tema scomodo, o sarebbe meglio dire scandaloso, che però trova nell’arte una strada per emergere. Basti pensare che il cannibalismo viene raccontato persino in un celebre dipinto del 1818 di Théodore Géricault come La zattera della medusa.



Perché il cannibalismo è un tema così controverso, così indecente? La sua brutalità mette in discussione l’intero sistema sociale e civile delle società occidentali, prima illuminate e razionali, oggi capitalistiche e avanzate, la cui egemonia sul resto del mondo è legittimata dal loro “presunto” rispetto dei diritti dell’"uomo". Disgustoso da una parte, “contro natura” dall’altra: il cannibalismo viene considerato l’atto di violenza più efferato che un uomo può compiere verso un suo simile. Si tratta quindi di un fenomeno che possiede un forte potere simbolico in quanto stabilisce il confine tra ciò che deve essere considerato “umano” e ciò che invece si trova al di fuori della “dimensione umana”.



Gli episodi di antropofagia che possono essere ricondotti alla scarsità di cibo, si affiancano a quelli in funzione di un'usanza culturale oppure nel contesto di alcuni disturbi mentali. Tutti questi casi trovano una rappresentazione in diverse forme di arte, ma in questo lavoro ci concentremo esclusivamente su prodotti cinematografici.

Per comprendere meglio i contesti in cui il cannibalismo viene utilizzato all’interno dei film è utile introdurre una classificazione del fenomeno a seconda delle finalità:

  • rituale-spirituale (ingraziarsi gli dei, vendetta sui nemici);  
  • alimentare (funzionale alla sopravvivenza); 
  • criminale (nella maggior parte dei casi dovuto a devianze di carattere psichico). 

Pratica sacra per alcune culture, atroce e sacrilega per altre, il cannibalismo si situa tra simbolismo e paura, tra realtà e mito. Proprio per questo ci permette di parlare dell’umanità e del suo futuro, di immaginare scenari distopici dove i conflitti sociali portano all’espressione più violenta dell’uomo. L’atto cannibalico come estrema conseguenza di una violenza, di un disordine, di una lotta. L’atto cannibalico come sintesi di un malessere diffuso, psicologico e sociale, che silenzioso alberga nella società ma che può improvvisamente esplodere trasformando gli uomini in qualcosa di “non più uomo”, un killer affamato di carne umana che per la propria sopravvivenza è disposto a mangiare chiunque si trovi di fronte: donne, bambini, anziani, familiari. Altri uomini.

All’interno del cinema i significati si espandono andando dalla classica forma rituale (generalmente connotata come primitiva e negativa) a elaborazioni più complesse come la mancanza di “umanità”, la violenza della storia e la fine del mondo. Nel mio lavoro ho tentato di ricostruire un percorso della rappresentazione del cannibalismo nella cinematografia, evidenziandone le caratteristiche principali e le evoluzioni nel tempo al fine di individuare una riflessione su temi quali la violenza, il futuro, la paura, la guerra e il conflitto psicologico e sociale.

Il tema del cannibalismo nella cinematografia subisce differenti trattamenti a seconda del periodo storico in cui viene affrontato, manifestando le ansie e le domande più profonde dell’epoca sul superamento dei conflitti e sul destino umano. Si parte da un utilizzo del cannibalismo come strumento per l’affermazione di un’”identità umana” contrapposta ad una “non-umana”, per arrivare, in tempi più recenti, ad analisi che inseriscono la pratica cannibalica all’interno di cornici più complesse come quelle apocalittiche o post-apocalittiche. Ho deciso di cominciare la mia analisi dal filone che partendo dai Mondo Movie evolve in una vera e propria corrente dedicata esclusivamente al cannibalismo: i Cannibal Movie.

Negli anni sessanta e settanta l’Italia scopre il gusto per l’esotico e il Cinema Mondo tenta di appagarlo attraverso film che ricalcano lo stile documentaristico e che contrappongono diverse realtà culturali in un carosello di immagini scioccanti e sensazionalistiche. Il genere ha la sua principale ambientazione in località esotiche. Qui avviene l’incontro tra un mondo occidentale “civile”, “illuminato” e “razionale” ed un mondo “esotico”, “tribale”, rappresentato come estremamente violento e dedito al cannibalismo umano. Si tratta di veri e propri “shock-u-mentary” resi maggiormente credibili dalla presenza di un commento fuori campo pseudo-sociologico.


Le pellicole dei Mondo Movie(2)  mettono in scena un’opposizione netta tra le categorie di /civile/ e /selvaggio/, /bianco/ e /non bianco/, e quindi /superiore/ e /inferiore/. Il giudizio sul cannibalismo e sui popoli che lo praticano è chiaro: in una posizione dall’alto al basso, l’Occidente si auto-rappresenta, o meglio si auto-celebra, come portatore di un’etica superiore. In questo senso il cannibalismo funziona come un dispositivo atto a creare un tipo di umanità la cui giustizia è indiscutibile ed un’altra umanità contrapposta e ingiusta, e per questa ragione meritevole di essere soggiogata ed esclusa dal mondo civile occidentale.

Si tratta di una lettura molto piatta che subisce le influenze di un passato coloniale e di un’ideologia della superiorità di razza che si nutre anche del ricordo fascista. Rilevante è il fatto che questo filone cinematografico trovi un terreno molto fertile soprattutto in Italia(3), dove tra gli anni ’60 e ’80 vengono realizzate centinaia di pellicole con questa impostazione.

A portare il genere dei Cannibal Movie all’apice della popolarità è il film più censurato nella storia del cinema, il controverso Cannibal Holocaust, pellicola diretta nel 1979 sempre da un italiano, Ruggero Deodato. Tralasciando le vicende giudiziare in cui l’opera è stata coinvolta, sicuramente interessanti ma non funzionali a questo studio, passiamo all’analisi delle categorie indagate dal film. La narrazione si svolge intorno a diversi poli: /giungla/ e /città/, /selvaggi/ e /civili/, /inferiori/ e /superiori/, /violenti/ e /non violenti/. Apparentemente anche questa pellicola sembra essere in linea con il filone dei Mondo Movie ma nello svolgimento del film queste categorie vengono completamente messe in discussione, evidenziando tutti i limiti della capacità di giudizio occidentale nel momento in cui tenta di rappresentare realtà diverse dalla propria. Come in una sorta di specchio, l’occidentale vedrà nell’Altro il riflesso dei propri peccati. 

Da una città simbolo del mondo occidentale, New York, si passa a una realtà opposta, la giungla Amazzonica. Un’emittente televisiva, la BDC (caricatura della BBC), incarica 4 reporter di documentare le usanze di alcuni popoli della giungla che si ritiene pratichino il cannibalismo.
Se fin qui siamo di fronte alle classiche dinamiche dei Mondo Movie, cos’è che rende invece Cannibal Holocaust unico nel suo genere? Il fatto che la contrapposizione /giusto/ e /ingiusto/, /umano/ e /non umano/ subisca un violento capovolgimento. La situazione iniziale viene completamente rovesciata rompendo lo schema Mondo e lasciando spazio e riflessioni più profonde sui valori della società capitalistica avanzata occidentale governata dai media e dalla politica.

Lo scopo dei reporter è quello di produrre un filmato sensazionalistico ma, non trovando nella giungla scene abbastanza scioccanti ed efferate, senza alcun disagio decidono di rendersi essi stessi gli autori di azioni brutali nei confronti della popolazione locale manipolando a loro vantaggio la realtà e attribuendo la colpa agli stessi indigeni. Cominceranno con l’appiccare il fuoco su un piccolo villaggio, dopo essersi assicurati di aver rinchiuso tutti gli indigeni nelle loro capanne. Nelle riprese destinate alla televisione affermeranno che sono stati gli indigeni a provocare l’incendio.

Tra le scene più violente del film c’è lo stupro di una giovane indigena a opera dei reporter che successivamente ritroveremo brutalmente impalata, mentre gli assassini ancora una volta commentano l’orrore attribuendone la colpa agli indigeni. Non a caso il film inizia mostrando le immagini delle fucilazioni dei civili da parte della dittatura nigeriana. Questo parallelismo con un vero documentario girato in uno dei luoghi simboli della violenza più cruenta, la Nigeria, contribuisce a confondere la sottile linea di demarcazione che separa /realtà/ e /spettacolo/ nella società analizzata da Deodato.

Si tratta di una delle prime volte in cui, all’interno del filone dei Cannibal Movie, i personaggi cattivi sono gli occidentali, i reporter, mentre gli indigeni cannibali rappresentano gli indifesi. Tutta la trama del film si svolge intorno alla tensione tra quello che i reporter “avrebbero dovuto fare” e quello che invece “hanno fatto”, a simboleggiare l’esistenza di una discrepanza tra ciò che il mondo cosiddetto “civile” dovrebbe fare e quello che invece realmente fa.


Nella seconda parte del film la situazione subisce un’inversione e i quattro reporter vengono progressivamente uccisi e mangiati dalla popolazione locale che ha l’opportunità di rivalersi delle ingiustizie e le sofferenze patite a causa dei quattro. Anche dopo l’atto cannibalico che vede il bianco mangiato dall’indios, è impossibile simpatizzare con il bianco. Gli indigeni restano quelli che si dedicano al cannibalismo per ragioni rituali-cerimoniali mentre i reporter sono dei veri e propri assassini senza pietà, lasciando intuire allo spettatore come essi siano da porre ad un livello ancora peggiore rispetto alle tribù che praticano il cannibalismo. La tensione tra la violenza giustificata degli indios e quella ingiustificata dei reporter si avverte già dal titolo in cui “cannibal” può essere associato agli indios mentre “holocaust” si riferisce senza dubbio alle nefandezze compiute dall’uomo occidentale e “civile” contemporaneo al regista che, come un eco, richiamano alla memoria l’olocausto di ebrei, zingari ed omosessuali ad opera dei nazisti, così come le violenze perpetuate durante la colonizzazione dell’America a opera di Cortes e degli altri conquistadores europei.

Il film comincia affermando che nella giungla vige la legge del più forte, ma subito dopo scopriamo che da questa legge non è esclusa nemmeno la civiltà occidentale. E si conclude con una domanda che innesca una riflessione, non scontata per l’epoca, su chi sia il leggittimo portatore di “umanità”: “Mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali”.


Gli anni di Cannibal Holocaust sono gli anni del terrorismo delle Brigate Rosse e delle stragi di stato, anni in cui, ogni giorno in televisione, il pubblico italiano poteva assistere alle scene di violenza celebrate dai media. Alla luce del contesto storico e delle riflessioni dell’autore nei confronti del sistema mediatico, il film può essere visto anche come una lucida critica alla spettacolarizzazione della violenza e alla tendenza cannibalica del sistema mediatico contemporaneo, pronto a nutrirsi della sofferenza altrui pur di aumentare l’audience con uno scoop o una clip scioccante. Una critica a un mondo occidentale, governato dai mass media e dai politici che, esercitando il potere di rappresentare l’Altro, il diverso, non solo finisce inevitabilmente per produrre una violenza epistemica, ma prospera nutrendosi della trasformazione del dolore in spettacolo.

Nella domanda implicita durante tutto il film, “chi dei due è più cannibale?”, si nasconde una riflessione antropologica allargata sul significato di antropofagia nel mondo contemporaneo e sulla rappresentazione mediatica dell’altro. La definizione di “cannibale” viene espansa da “uomo che mangia un altro uomo” a “uomo che trasforma il dolore di un altro uomo in spettacolo”, portando alla luce l’efferatezza di alcuni comportamenti dell’uomo cosiddetto civilizzato, fino a chiamare in causa lo spettatore stesso, fruitore morboso della violenza che ne scaturisce. Un atto d’accusa ripetuto diverse volte all’interno dei dialoghi del film, come nella frase: “Tutto questo per creare un bello spettacolino per accontentare un pubblico che gode nel vedere un massacro”.

L’anno successivo, nel 1980, esce Cannibal Apocalypse conosciuto in Italia anche come Apocalypse domani di Antonio Margheriti, sempre un regista italiano. Il film mescola al cinema di guerra elementi dei Cannibal Movie, inseguendo il successo di Apocalypse Now(4)  e Cannibal Holocaust. Siamo in America. Un virus presente nella saliva di alcuni soldati di ritorno dalla Guerra del Vietnam li rende violenti, cannibali e contagiosi. Ecco come recita lo slogan promozionale della pellicola: 

“Prigionieri di guerra in Vietnam... chiusi in cattività... ora sono in circolazione, con una predilezione per la carne umana”.

“Siano nella giungla, siano in città, non possono far altro che MANGIARE!”

Ritroviamo le categorie di /giungla/ e /città/ che, anche in questo caso come in Cannibal Holocaust, sono funzionali all’affermazione della presenza di una comune bestialità nell’uomo /civile/ e in quello /selvaggio/. Il “virus che rende cannibali” può sicuramente agire da metafora del potere trasformativo della guerra da “umano” a “non umano”. La guerra in Vietnam, con tutte le sue atrocità (sterminio, tortura, uso di droghe), non può restituire gli stessi soldati così come erano partiti, ma chi ne esce viene inevitabilmente trasformato portando con sé un terribile sentimento di distruzione, figurativamente espresso con l’immagine dell’”uomo che mangia l’altro uomo”. La guerra rende “non umani” e i soldati che tornano sono ormai bestie che si eccitano alla vista del sangue dei propri simili.

Il tema del cannibalismo come estrema conseguenza della violenza della guerra si ritrova anche in una pellicola più recente Hannibal Lecter – Le orgini del male, all’interno della quale vengono mostrate le vicende che trasformeranno il piccolo Hannibal nel cannibale più famoso della storia del cinema. A soli otto anni, durante la seconda guerra mondiale, nazisti spietati e affamati decidono di uccidere e mangiare la sorellina di Hannibal per sopravvivere. Lo fanno davanti ai suoi occhi e costringono anche il bambino a cibarsi del corpo della sorella.

La guerra ti porta a sviluppare un gusto per la carne umana perché in fondo, nella sua brutalità e assurdità, non è forse anch’essa una grande operazione di cannibalismo? L’idea è sicuramente affascinante, ma se torniamo a Cannibal Apocalypse ci accorgiamo che nel film trovano spazio ulteriori sfumature che anticiperanno i temi del cinema distopico e apocalittico contemporaneo.

Per esempio, una delle domande che percorre il film è la seguente: “Come può una degenerazione mentale come il cannibalismo diventare una malattia contagiosa?”. Il virus, il contagio, simbolizza la paura che a essere toccati dal cambiamento non siano solo i soldati, ma che anche l’America non sia più la stessa. La disumanità della guerra supera i confini di una dimensione locale, quella del Vietnam, per arrivare a mettere a rischio il futuro dell’intera nazione Americana. La follia della guerra è contagiosa ed il virus si espande dalla giungla alla città, perché anche ciò che avviene /lontano/ finisce con il riguardarci da /vicino/. Queste riflessioni ci portano dal tema della disumanità a quello della responsabilità.

Ma la natura decisamente ecclettica di Cannibal Apocalypse fa sì che il film non esaurisca i suoi significati nella dimensione collettiva del conflitto, ma finisca con lo sfociare nella dimensione psicologica, dipingendo anche un conflitto interiore di natura psichico-sessuale che introduce un cannibalismo che è conseguenza dei condizionamenti sociali. Se i soldati diventano cannibali in una situazione di prigionia, anche tutti gli altri personaggi infettati vivono in una situazione di repressione psicologica e sessuale causata dalla presenza di desideri non appagabili perché non socialmente riconosciuti, legittimati. Ogni personaggio reprime qualcosa di sé e questa lotta lo rende schiavo del proprio desiderio. Solo per citarne alcuni: una teenager alle prese con i suoi primi desideri sessuali viene tenuta a freno dalla zia; una donna sposata che vorrebbe avere una relazione extra-coniugale.

Se i personaggi femminili ci parlano di una repressione intima, quelli maschili mostrano tutta l’atrocità del potere performativo della guerra. Queste due differenti interpretazioni conducono però a una riflessione comune, mostrandoci un cannibale che è ormai all’interno dei nostri confini e che ha definitivamente superato la frontiera simbolica tra /civile/ e /selvaggio/. 

Nel passaggio dagli anni ’80 agli anni duemila, le riflessioni indotte dai film che trattano il tema del cannibalismo cambiano radicalmente. La spettacolarizzazione del dolore e la rappresentazione dell’altro diventano temi meno importanti rispetto a quello del futuro del genere umano. Il 2001 è il punto di non ritorno: l’attacco alle Torri Gemelle e la guerra al terrorismo mondiale decretano la fine di un’epoca in cui si rifletteva sui rischi e annunciano l’inizio di un’epoca in cui il rischio è già diventato realtà.


Nel cinema contemporaneo il cannibalismo si presenta, nella maggior parte dei casi, come la conseguenza di una catastrofe che decreta la fine, la distruzione del mondo. La speranza di un cambiamento lascia molte volte il posto ad una visione in cui il cannibalismo è il futuro, ultima e tragica possibilità di sopravvivenza dinanzi ad uno scenario apocalittico o post-apocalittico.

Quindi, dall’inizio del nuovo millennio i film che affrontano il tema del cannibalismo sono tornati in auge e si assiste ad una vasta produzione su scala internazionale, tuttavia prenderemo in esame solamente due film che ai fini dell’analisi risultano particolarmente interessanti in quanto rappresentano due utilizzi emblematici ma molto diversi della metafora del cannibalismo: 28 giorni dopo e The Road.

28 giorni dopo è un film del 2002 diretto da Danny Boyle. In un contesto storico in cui le armi chimiche e l’insorgere di nuove malattie causate dallo sfruttamento negli allevamenti sono una minaccia reale per l’uomo, il film si presenta come un atto d’accusa alla sperimentazione incontrollata e al delirio di onnipotenza che pervade l’uomo nel momento in cui pensa di poter governare il mondo grazie alla scienza.
Il settore dell’agricoltura biotecnologia dei paesi ipersviluppati è caratterizzato da una inaspettata tendenza al cannibalismo, dal momento che fa ingrassare mucche, pecore e polli con mangime a base animale. Questa scelta è stata poi ritenuta la principale causa della malattia letale detta encefalopatia spongiforme bovina (Bse), comunemente chiamata “mucca pazza” [...]. La follia va qui, tuttavia, rintracciata decisamente nell’azione degli uomini e delle loro industrie biotecnologiche. Il capitalismo avanzato e le sue tecnologie biogenetiche generano una forma perversa di postumano(5). 
Un gruppo di attivisti animalisti tenta di liberare degli scimpanzé impiegati come cavie ignorando che questi ultimi sono stati infettati con un virus facente parte del ceppo della rabbia, capace di contagiare anche l’uomo. L’epidemia si diffonde in maniera rapidissima, scatenando negli uomini pulsioni omicide e cannibalistiche. Il protagonista del film si risveglia dal coma 28 giorni dopo in una Londra apparentemente deserta ma che si scopre abitata quasi esclusivamente da persone infette: il “selvaggio” e la bestia non vivono più nella giungla ma in una delle più importanti capitali europee dove troviamo “una nuova e diversa umanità animalizzata regolata solo dalle leggi del branco e del più forte”(6).

A differenza dei cannibali di Apocalypse Domani, gli zombie-cannibali di 28 giorni dopo si muovono velocissimi. Non sono fantasmi, non sono soltanto mostri con i quali fare i conti: sono delle vere e proprie macchine da guerra dalle quali è impossibile fuggire. Come scrive Gaia Giuliani, “questi fast-running-zombies evocano l’idea che a sopravvivere possano essere solo i giovani (e in particolare le donne), speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti del passato”(7).
Infatti, la domanda che accompagna tutto il film non è “si può sopravvivere?” ma “chi sopravviverà?”: ci troviamo di fronte ad uno scenario catastrofico dal quale si può uscire salvi, a patto che si conservi la propria “umanità”.


L’iniziale conflitto fra /umani/ e /cannibali/ ne nasconde in realtà uno ancora più interessante: quello tra /civili/ e /militari/. Nella seconda parte del film i sopravvissuti troveranno rifugio in un accampamento militare, ma l’incontro con questi soldati si rivelerà essere ben peggiore di quello con i cannibali che devastano la città. I militari cercheranno di abusare sessualmente delle due donne civili che accompagnano il protagonista e l’unico modo per salvarle sarà fare una carneficina.

Un finale felice che però non può non farci sorgere, anche qui come in Cannibal Holocaust, la domanda: “Chi sono i veri cannibali?”. I cannibali sono le vittime che il virus ha accecato di una rabbia contagiosa e omicida, oppure i militari che in maniera totalmente egoistica sono disposti ad approfittare della vulnerabilità delle due donne sopravvissute per appagare i loro istinti sessuali?
Se i militari rappresentano il Potere, 28 giorni dopo può intendersi sicuramente come un grido alla difesa dei più deboli, siano essi umani o animali. Nel momento in cui si calpestano i diritti di una parte della popolazione per ricercare il profitto personale ad ogni costo, le regole “civili” che garantiscono una prospera vita comune vengono meno, lasciando spazio ad un mondo cannibale che considera l’uomo come “pura carne” e quindi merce di scambio.

Come in Cannibal Holocaust, la figura del cannibale si rivela un termine di paragone che esce vincente dal confronto con la società: ancor prima che il virus si diffondesse, c’era già un “potere cannibale” pronto a fagocitare le vite altrui per diventare sempre più grande e pervasivo. L’epidemia di 28 giorni dopo è necessaria affinché tutto ciò finisca perché soltanto una purificazione totale potrà portare ad una nuova umanità. La distinzione /giusto/ e /sbagliato/, /umano/ e /non umano/ qui è solamente apparente perché l’accusa è totale e il conflitto globale.

Non ci sono più categorie nelle quali rifugiarsi, l’unica cosa che si può fare è svegliarsi, abbandonare il “mondo cannibale, malato, rabbioso” e cominciare a costruirne uno nuovo, con la consapevolezza che senza un cambiamento radicale non potrà esserci nemmeno più “umanità”.

La catastrofe che ha coinvolto l’intera Inghilterra avrà fine solo nel momento in cui i cannibali dopo aver mangiato tutti gli umani, moriranno di fame. Non siamo di fronte alla classica figura dello zombie-cannibale che non può morire perché già morto, perché il cannibalismo di 28 giorni dopo, più che rappresentare un ostacolo al futuro, rappresenta una rottura con il passato. È il dispositivo che permette di svoltare pagina, di cambiare un mondo che è già perverso e che, per poter sopravvivere, ha bisogno di rinascere completamente, abbandonando i vecchi paradigmi a favore di nuove regole comunitarie capaci di garantire l’esistenza dei viventi.

The Road è un film del 2009 diretto da John Hillcoat, tratto dal romanzo La Strada del 2006 di Cormac McCarthy. La pellicola mette in scena un mondo che ha fallito, un mondo privo di vita in cui una pioggia radioattiva ha messo fine alle specie viventi come le conosciamo oggi: non c’è più cibo e persino i colori della natura sono cambiati. A sopravvivere restano solo pochissimi uomini che si spostano alla continua ricerca di mezzi di sostentamento, disposti a tutto pur di sopravvivere. Anche qui il cannibalismo è la conseguenza di una catastrofe ma, a differenza di 28 giorni dopo, non è un’epidemia ad aver reso gli uomini cannibali.

I cannibali di The Road sono lucide bande di criminali che, in mancanza di vegetali e animali da mangiare, assaliscono i propri simili alla ricerca di carne umana fresca con la quale banchettare.


È inverno e i protagonisti del film, un padre ed un figlio senza nome, si dirigono verso Sud alla ricerca di un clima più mite. Hanno con loro una pistola con due pallottole per difendersi o per farla finita qualora dovessero cadere nelle mani dei cannibali. Le categorie /bene/ e /male/, /luce/ e /ombra/, /speranza/ e /cinismo/ vivono nei due personaggi: mentre il ragazzo tenta di esplorare la propria “umanità”, il padre, nonostante abbia ripudiato il cannibalismo, ha completamente perso la fiducia nell’Altro.


Durante il loro cammino i due incontreranno vari pericoli, ma la minaccia peggiore è rappresentata dal gelo di sentimenti generato dalla disgregazione di qualsiasi relazione sociale. Il cannibalismo fa da sfondo a una regressione dell’uomo a bestia che avviene soprattutto perché si è persa ogni connessione sociale ad eccezione del sentimento di protezione che lega il padre al figlio al figlio, come testimoniano le sue parole: “Ucciderò chiunque proverà a toccarti, perché questo è il mio compito”.
Sulla strada incontreranno un ladro al quale il padre ordina di spogliarsi e dare loro tutto quello che ha, gridando: "Tu non avresti avuto problemi a lasciarci morire". Ma è proprio questo il punto, cioè cosa succede se cominciassimo tutti a pensare che abbiamo il diritto di fare all’Altro quello che l’Altro farebbe a noi? Al contrario, in 28 giorni dopo i protagonisti del film, pur trovandosi in uno scenario post-apocalittico, lottano con tutte le loro forze per conservare la propria “umanità”. In The road non c’è più alcuna speranza e si lotta esclusivamente per la salvezza personale e non per quella dell’umanità.

Il padre è il “male”, il bambino “il bene” e stanno giocando una partita in cui la posta non è più il futuro dell’umanità, ma riuscire a sopravvivere qualche giorno in più. Solo in punto di morte l'uomo ricorda al figlio di non arrendersi alle immoralità e cercare "i buoni”, e finalmente poco dopo il ragazzo incontra una famiglia di sopravvissuti che si prende cura di lui. Per raggiungere il lieto fine, è necessario chiudere i conti con un passato di diffidenza ed egoismo ed imparare ad accettare l’Altro.


Di fronte alla fine del mondo si può restare umani? Si può restare buoni? Oppure è meglio farla finita? In tutta la storia compare il fantasma della madre che ha deciso di suicidarsi quando è iniziata la catastrofe. Infatti la domanda che accompagna tutto il film, che è intriso di dilemmi morali, è: “Meglio vivere o morire?”. Se si sceglie di vivere, allora quali sono le condizioni? Che genere di “umanità” può essere proposta? E quali valori è ancora possibile trasmettere?
La vita dell’uomo, così com’è attualmente, non può portare che alla distruzione dell’uomo stesso e alla regressione verso uno stato “primitivo” e cannibalico. La cosiddetta “società civile” qui viene pienamente giudicata come non sufficiente a preservare quello che dovrebbe essere uno “spirito umano”, solidale, fraterno dell’uomo.

In entrambe le pellicole, 28 giorni dopo e The road, la presenza del cannibale è legata in maniera indissolubile all’idea di un mondo in cui “tutti sono contro tutti” e non esiste più nessuna regola civile che possa garantire la conservazione della specie umana. Però, mentre in 28 giorni dopo prevale la critica ad un potere che non riesce a difendere i diritti dei più deboli e a garantire un vivere “civile”, in The road sono proprio le relazioni umane ad essere entrate in una crisi profonda.

I cinque film presentati nell’analisi ci offrono spunti diversi sull’utilizzo del cannibalismo come strumento per descrivere una situazione limite in cui le relazioni umane vengono completamente ripensate. Benché il cannibalismo sia legato, in tutti i casi, ad una forma di violenza, vediamo che per ogni film e periodo storico ci sono alcune differenze.

Si parte dai film del Cinema Mondo all’interno dei quali il cannibalismo funge da dispositivo per esprimere relazioni di potere e di genere, attuando un’egemonia discorsiva che permette all’occidentale di posizionarsi in maniera completamente diversa dall’Altro, auto-celebrandosi come portatore di valori superiori. Nelle pellicole successive invece si passa dal piatto voyerismo per scoprire un utilizzo più ricco di sfumature, volto alla creazione di un effetto di “mirroring” che permetta, tramite l’osservazione dell’Altro, di inviduare i limiti della capacità di rappresentazione e delle logiche discorsive che governano lo stesso mondo dal quale provengono i film. L’uomo cosidetto “civile” si guarda allo specchio e si scopre cannibale, costretto ad ammettere che la legge del più forte vige anche nella sua società e a ripensare i valori e le norme che fondano la società in cui vive.
Da Cannibal Holocaust, in cui il cannibalismo era la metafora di un sistema mediatico che si nutre della sofferenza di altri uomini trasformando il dolore in spettacolo, si passa alla tesi di Cannibal Apocalypse in cui i conflitti sociali e quelli di natura psico-sessuale presenti nella società vengono paragonati a delle forme di cannibalismo più sottili e meno scandalose, ma non per questo meno dannose.
Con 28 giorni dopo il significato del cannibalismo si espande ulteriormente per arrivare a criticare, in maniera più generale, il cattivo uso del “potere dell’uomo sull’uomo” e sul pianeta, ma è solo con The road che, mettendo in scena il trionfo degli egoismi individuali, esso diventa metafora della crisi profonda in cui versano i rapporti umani.

Posizionando questa analisi in una linea del tempo notiamo come, dagli anni ’60 in poi, da una situazione iniziale, in cui il cannibale era presentato all’esterno della società “civile” come “selvaggio” e “primitivo”, progressivamente si assiste ad una sua integrazione all’interno delle società cosiddette “civili” e i cannibali diventano, a tutti gli effetti, i nuovi abitanti delle città capitalistiche avanzate.

Nel mio percorso ho trovato davvero interessante questo spostamento da una dimensione collettiva e sociale del cannibalismo, in cui fungeva da dispositivo per distinguere diversi tipi di società, ad una più privata e personale in cui si rileva una componente cannibale all’interno dello stesso uomo. Questo mi porta a pensare che mentre negli anni ’60, ’70 e ’80 era ancora viva l’illusione che il conflitto potesse essere “normalizzato” o confinato, oggi c’è la consapevolezza che il conflitto è endemico, dentro l’uomo e la sua società.

Da pratica indecente, imputata a società altre e “selvagge”, il cannibalismo diventa un incubo reale alla cui luce analizzare le relazioni umane e di potere presenti all’interno delle nostre società.

In maniera simbolica, il punto di rottura è rappresentato dall’anno 2001, anno della globalizzazione estrema del conflitto consacrata dall’attacco alle Torri Gemelle, simbolo della civiltà occidentale. Negli anni precedenti il conflitto era situato “fuori”, era confinato e di tipo sociale perché lo stesso terrorismo era locale. A partire dal 2001 si notano dei caratteri di novità che spostano il conflitto dentro la società, fino ad arrivare alla dimensione più intima e personale. Il sistema viene sempre messo in discussione, ma dalla base: le relazioni umane, purtroppo corrotte dagli egoismi individuali. Se di fronte ad un conflitto di tipo locale, il cannibalismo è funzionale all’attuazione di una rappresentazione, quando il conflitto diventa globale funge da dispotivio per riflettere sulla sopravvivenza della specie umana. Se prima la preoccupazione principale era quella di “evitare il rischio”, oggi è quella di “trovare un modo per sopravvivere cambiando”.
La brutalità delle nuove guerre, nel mondo globalizzato guidato dalla gestione della paura, non rimanda solo al controllo della vita, ma anche alle diverse pratiche della morte [...]. Come risultato di questo stato di insicurezza, l’obiettivo imposto socialmente non è il cambiamento, bensì la conservazione o la sopravvivenza(8). 
Mentre nel caso di zombie, mostri e alieni si tratta di trovare un modo per unire “umanità” diverse grazie ai legami affettivi, di fronte all’uomo cannibale l’urgenza diventa quella di stabilire quale sia il vero significato dell’essere “umani”, interrogativo che ritroviamo puntualmente in tutte le pellicole analizzate. L’”umanità” richiede una nuova definizione perché quella attuale, tentando di tracciare un netto confine tra cosa è /giusto/ e cosa è /sbagliato/, ha finito per sostenere un’ideologia fallimentare. Questa definizione è stata viziata dal pensiero positivista e illuminista europeo che ha preteso di essere l’unico rappresentante di un’”umanità” universalmente valida, creando proprio attraverso questa definizione, tramite il potere del discorso e della rappresentazione dell’Altro, una violenza sia epistemica che materiale, le cui tragiche conseguenze continuano a mietere vittime tuttoggi.

Allora, nel momento in cui l’uomo è convinto di essere la misura di tutte le cose, ecco che dall’arte, con la metafora del cannibale, qualcuno viene a ricordarci che abbiamo bisogno di nuove definizioni che non si basino più sul dualismo “giusto / sbagliato” ma che siano capaci di comprendere le molteplici sfumature di cui la realtà si compone. Attraverso l’analisi dell’utilizzo del cannibalismo nei film presi in considerazione, ho cercato di contestare l’idea che il genere, in questo caso il genere umano, sia dato come naturale. Come scrive Rosi Braidotti è necessario che “questo approccio, che si attesta sull’opposizione binaria tra il dato e il costruito, sia progressivamente sostituito dalla teoria non dualista dell’interazione tra natura e cultura”(9).

Sulla base di categorie che sono state create in maniera arbitraria e vendute come universali, è stata legittimata una violenza che costringe oggi a fare i conti con gli aspetti “inumani” di un’era che non sembra più appartenere all’uomo nel momento in cui il suo futuro e la sua sopravvivenza sono legati ad un sottile filo. Se l’”umanità” è uno dei luoghi comuni dietro ai quali ci siamo nascosti per uscire meno frustrati da operazioni difficili come la riduzione della complessità del mondo, oggi non possiamo più ignorare la debolezza di questo concetto tanto sfruttato quanto pericoloso. Un concetto anch’esso per sua natura cannibale, perché, con l’includere alcuni, finisce con l’escluderne altri la cui umanità non viene riconosciuta, ma immolata sullo stesso altare sul quale da secoli l’Occidente si auto-celebra come unico sistema veramente “giusto” e “umano”.

Solo la consapevolezza della “fine della validità universale del soggetto umanistico europeo” può innescare quel cambiamento necessario per sopravvivere nella situazione attuale, chiudere i conti con il passato e inaugurare nuovi discorsi capaci di comprendere non un’unica forma di “umanità”, ma tutte le diverse forme esistenti di vita, riconoscendo la piena dignità di ognuna. 


Ringraziamenti

Ringrazio le professoresse Cristina Demaria e Gaia Giuliani per avermi trascinato in questo luogo apparentemente insanguinato, ma che dietro la brutalità delle immagini nasconde significati e dilemmi profondi che non possono non riguardarci da vicino. Non rendiamoci complici dei "cannibali", cominciamo oggi a trovare modelli sostenibili di esistenza che non si fondino sul sacrificio dell'Altro e del Pianeta.

Note

1. Rosi Braidotti, Il postumano, Roma, DeriveApprodi, 2014, p.7.
2. Controverso documentario, capostipite del genere "Mondo Movie" è Mondo Cane, film del 1962 diretto da Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi., incentrato sugli usi e costumi più scioccanti dei vari popoli della terra.
3. “Questa particolare categoria di film ha una radice propriamente italiana, in quanto è proprio in Italia che nacque l'idea di ambientare storie horror non più con atmosfere notturne, bensì alla luce del sole in suggestive ambientazioni esotiche”. Da Autori vari, Bon apetit! Guida al cinema cannibalico, Milano, Dossier Nocturno n.12, 2003.
4. Apocalypse Now è un film del 1979 diretto da Francis Ford Coppola ispirato al romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra, sulla guerra del Vietnam. Al film furono assegnati diversi premi: la Palma d'oro a Cannes, ex aequo con Il tamburo di latta e 2 Oscar.
5. Rosi Braidotti, Il postumano, Roma, DeriveApprodi, 2014, p.13.
6. Gaia Giuliani, Le paure corrono veloci – The Horde (2009), 28 giorni dopo (2002) e Dead set (2008) da distopie.wordpress.com.
7. Gaia Giuliani, Le paure corrono veloci – The Horde (2009), 28 giorni dopo (2002) e Dead set (2008) da distopie.wordpress.com.
8. Rosi Braidotti, Il postumano, Roma, DeriveApprodi, 2014, p.15.
9. Rosi Braidotti, Il postumano, Roma, DeriveApprodi, 2014, p.9.



Filmografia 


 - Mondo Cane (Regia: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi - Nazione: ITA - Anno: 1962 - Autore: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti)
- Cannibal Haolocaust (Regia: R. Deodato - Nazione: ITA - Anno: 1979 - Autore: Marco Castellini)
- Cannibal Apocalypse (Regia: Antonio Margheriti (Anthony M. Dawson) - Nazione: ITA/SPA - Anno: 1980 - Autore: Dardano Sacchetti)
- Hannibal Lecter – Le origini del male (Regia: Peter Webber - Nazione: USA/ITA - Anno: 2007 - Autore: Thomas Harris)
- 28 giorni dopo (Regia: Danny Boyle - Nazione: UK - Anno: 2002 - Autore: Alex Garland)
- The road (Regia: John Hillcoat- Nazione: USA - Anno: 2009 - Autore: Joe Penhall)

Bibliografia 


- Rosi Braidotti, Il postumano, Roma, DeriveApprodi, 2014.
- Autori vari, Bon apetit! Guida al cinema cannibalico, Milano, Dossier Nocturno n.12, 2003.

Sitografia 


- distopie.wordpress.com: Racconti troppo umani di mondi postumani – di Gaia Giuliani e Gabriele Proglio

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